Parigi – Roubaix: un atleta Torino Triathlon al traguardo
Parigi – Roubaix: un pezzo di triathlon tra polvere e pavé
Il nome di Jean Stablinski dice poco o nulla ai non addetti ai lavori. Ma il velodromo a lui intitolato è un’immagine che tutti gli appassionati di bici conoscono bene. È l’unico velodromo che si percorre una volta e mezza.
Quando si entra nel velodromo, al termine della Parigi – Roubaix, nella sua versione gran fondo, per 600 metri si guarda all’insegna che campeggia dietro l’arrivo: l’inferno del nord vi porterà in paradiso. È la verità. Le mani tremano (la sera gonfieranno), le braccia sono più stanche delle gambe, ma chiunque varchi il traguardo si sente un eroe.
Prima di diventare un ciclista professionista, nel 1952, Stablinski quell’inferno lo aveva conosciuto bene. A 15 anni aveva scavato nelle miniere al confine tra Francia e Belgio, per portare alla luce mattoni di porfido, che nella prima metà del ‘900, servivano a fare belle le strade.
Oggi, quegli stessi mattoni, percorsi per 55km, rendono le poche strade che li hanno preservati, un vero e proprio inferno.
La versione gran fondo della mitica classica monumento si corre il giorno prima della gara per professionisti. Semi-professionisti, amatori, sportivi, triatleti e semplici appassionati provano a incidere il proprio nome sul pavé.
Nelle gran fondo alla francese si può partire tra le 7 e le 9 del mattino, si deve arrivare entro le 18. La gara c’è, ma non si vede. Però mi dicono che i migliori saranno sulla linea di partenza all’alba. E così mi presento anch’io, quando i primi bagliori fanno capolino da est. Allo sparo il gruppo parte subito forte, 11km percorsi a 42 di media. Strada piatta, asfalto impeccabile.
Poi, eccolo, il mitico, l’assurdo, l’inferno: il pavé. Tratto 1 di 29. Si entra a 40 all’ora, vorresti essere un fenomeno e invece capisci presto che il ciclismo è una cosa, il pavé un’altra. È come immaginare il triathlon come una somma di nuoto, bici e corsa. No, il triathlon è uno sport a sè. Ecco, la Parigi Roubaix è uno sport a sè, una gara dove le doti da ciclista ti servono solo per conoscere il movimento cinetico che porta i tuoi piedi sui pedali a spingere due ruote. Tutto il resto lo devi imparare strada facendo.
La fatica che ricordi di aver fatto su salite mitiche o terribili come lo Zoncolan o l’Agnello, il Ventoux o il Galibier, il Fauniera o il Colle delle Finestre, sembra non averti insegnato nulla che tu possa mettere in pratica tra una sterzata e l’altra. Le sagome del gruppo dei migliori che volevi seguire all’inizio scompaiono presto nella nebbia e, per quanto tu provi a dannarti quando torni sull’asfalto, non li rivedrai mai più.
Anzi. La nebbia depositata sul porfido crea una patina viscosa. La bici balla e sopra balli tu. A ogni tratto di pavé ti sembra di stare sulla sedia elettrica. Ricerchi spasmodicamente qualche linea di sterratto, le buche sconnesse dei sentierini al lato della strada ti sembrano infinitamente più scorrevoli. Quando ti vede, qualche spettatore ti grida addirittura “baro”, ma tu sei solo felice di mangiare la polvere invece di ballare sul porfido.
Alcuni tratti di pavé riesci a percorrerli a 30, anche 35 all’ora, poi, quasi senza un motivo si spegne completamente la luce, e fai fatica anche solo a tenere i 20.
A metà gara, vedi una spianata di camper, il gruppo di spettatori diviene improvvisamente più folto, c’è anche una squadra di professionisti a provare il percorso e, davanti a te, il mito nel mito: la foresta di Arenberg. Ma capisci subito che la traduzione italiana è errata. In francese si chiama Trouée d’Arenberg. Trouée, che in italiano potrebbe tradursi come fenditura, grande buca, ma comunque non rende l’idea. Sono 2km e 400m, cinque o sei minuti che però sembrano non finire mai. La nebbia si è diradata, ma la vista no. Sobbalzi a ogni mezza pedalata, eviti i ciclisti per terra, preghi di non rompere il telaio come qualche sfortunato amatore, aspetti una foratura come una salvezza, per respirare.
I tanti passaggi a livello ti fanno perdere qualche minuto qui e là, ma i TGV oggi sono benedetti. Se volessi fare veramente il tempo dovresti adottare lo stratagemma di alcuni. Venire con qualche compagno di squadra che fa il percorso corto, pronto a tirare per te, nei pochi chilometri di asfalto tra un pavé e l’altro.
Mons-en-Pevele è l’11esimo tratto, uno dei più lunghi, il terrapieno a fianco del pavé è inesistente, così sei obbligato a correre sulle pietre per tutto il tempo. Sei così concentrato per tenere la direzione che dopo tre chilometri non saresti neanche in grado di ricordarti se la strada era in salita o in discesa.
Sarà solo il giorno dopo, aspettando i professionisti su quello stesso tratto, che mi accorgerò delle buone pendenze prima in discesa e poi in salita.
Pian piano che il traguardo si avvicina, il pavé sembra fare meno male, la tua sensibilità è ridotta, i tuoi arti anestetizzati, ma il cuore pieno, quasi tronfio.
Josef Fischer, che questa corsa la vinse alla sua prima edizione, nel 1896, pedalò gli allora 280 km della Parigi – Roubaix in 9h17’ a una media di oltre 30km/h. Per lui non avrebbe avuto senso contare i tratti di pavé. Per la sua bici a scatto fisso il pavé era veramente una benedizione. Ce l’avevano le strade migliori, quelle curate, ben tenute, mentre tutte le altre erano solo terra e fango.
Io ho percorso i 172km del tracciato attuale a quasi 27km/h di media, molto più lentamente che la stessa distanza, neanche una settimana fa, in allenamento, con i cari compagni di squadra della Torino Triathlon.
Ma allora abbiamo pedalato in bicicletta.
Questa, invece, è la Parigi – Roubaix.
Quando entro nel velodromo dedicato a Stablinski, lo sguardo non si leva dall’insegna che accoglie tutti i ciclisti.
Ho preservato le mandibole per un sorriso ampio e profondo.
E mi sembra di poter dire: oggi c’era Dio nell’inferno del nord.
by Francesco Candelari